La pratica dell’umanità

Molto tempo fa, finito il periodo dello studio contemplativo universitario, fui chiamato al servizio civile (ultimo scaglione di leva obbligatoria della storia italiana: mai stato bravo con il tempismo). Feci domanda per una Sos: un po’ perché era vicina a casa e un po’ perché mi andava di fare qualcosa di utile, per quanto possibile.

Finito il breve corso di formazione, il veterano della associazione Z. fu la mia nave scuola con un perentorio “Queschi l’è mia il to mistè”, questo non è il tuo lavoro. Invece, in capo a poco tempo, uscivo in equipaggio guidando il Ducato per i servizi sanitari secondari.

Al primo servizio dialisi accompagnai una splendida signora priva di gambe che ascoltava h24 Radio Maria. Poi portavamo il signor P. che aveva il cognome di una nota famiglia della criminalità siciliana e faceva finta di essere il cugino del boss terrorizzando i novellini. Per portare P. erano 4 piani di scale e 120 kg di omone e simpatia. Poi c’erano le dimissioni di persone alterate da mix esageratamente stupefacenti, dimissioni di persone guarite e altre inguaribili, trasporti per visite e tanto altro.

Quando si trattava di servizi allo IEO o in altri luoghi di maggiore fragilità il cuore era un po’ più piccino e pesante e si era, in partenza, meno cazzoni e ragazzi. Noi facevamo i servizi facili, poi i dipendenti e i volontari facevano le emergenze e gli interventi più tosti.

C’erano i momenti belli, tipo il primo salvataggio con defibrillatore che era una novità al momento, e momenti molto brutti, come quando annegò al lago un ragazzo del mio paese e il giorno dopo nessuno parlava perché assistere a una morte non è semplice, assistere a una morte di qualcuno così giovane, ancora meno.

Quell’anno fu speciale in termini di maturazione, probabilmente il più formativo della mia vita. Un anno di maturazione pratica , lontano dai libri del liceo o dell’università, dai master, dalle certificazioni Google, da quei mondi così teorici e spesso un po’ fasulli, per avere finalmente un contatto con la pratica della umanità.

A scuola si studia ora civiltà. Concetti belli: teoria, diritti. Qualche classe ha la fortuna di vivere le speciali differenze di ognuno in aula. Ma più raramente se ne fa pratica attiva di quotidiana umanità. Sul lavoro la pratica di umanità spesso svanisce, svanisce sovente in generale nei luoghi del quotidiano, nelle dinamiche tecnologiche, nel virtuale impalpabile.

Ritengo che molte decisioni politiche “alte” sarebbero decisamente differenti se affrontate e prese dopo un periodo corposo di frequentazione pratica di umanità. Spingerei i grandi “decisori” a fare, prima di candidarsi a ruoli di potere, sei mesi su un ambulanza o di servizio in un carcere o in una RSA. Momenti da ripetersi periodicamente, un mese ogni due anni, per non perdere la buona abitudine alla umanità. Insomma, decidi per l’umano solo se hai praticato e pratichi l’umanità.

Probabilmente parleremmo un po’ meno di confini, missili e altre assurde cose. E vivremmo forse un po’ diversamente.

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